The Journal of Seventeenth-Century Music
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Noel O’Regan, “Asprilio Pacelli, Ludovico da Viadana and the Origins of the Roman Concerto Ecclesiastico,” Journal of Seventeenth-Century Music 6, no. 1 (2000): par. 4.3, https://sscm-jscm.org/v6/no1/oregan.html.

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Volume 18 (2012) No. 1

Published 2016

L’Orfeo del 1607: Un madrigalista all’opera

Paolo Fabbri*

1. Monteverdi ed il teatro cantato prima dell’Orfeo

2. Influenze madrigalistiche nell’Orfeo

3. Passi madrigalistici a una voce, stile declamato, monodia estemporanea, dissonanze irregolari, e L’Orfeo

4. «Oratione» e «armonia» nello stile recitativo dell’Orfeo

5. Il ruolo delle cadenze

6. Il rapporto fra voce e basso continuo

7. Monteverdi, l’«imitatione», e l’io parlante nei madrigali e in teatro

Esempi musicali

Note al testo

1. Monteverdi ed il teatro cantato prima dell’Orfeo

1.1 Non credo di peccare di partigianeria se dico che L’Orfeo di Monteverdi è il più antico esempio di teatro tutto cantato ancor oggi pienamente vitale: La rappresentatione di Anima e di Corpo, e le Euridici di Peri e Caccini mi paiono interessanti per i musicologi, ma molto meno per il pubblico attuale (compreso il musicologo-spettatore).

1.2 Questo accade certamente per la qualità e la forza espressiva, e per la teatralità che il testo monteverdiano trasmette. A questo risultato, però, il compositore a mio avviso pervenne anche grazie al suo diverso profilo professionale rispetto ai colleghi che l’avevano preceduto nel nuovo campo teatrale. Quando nel 1607 si trovò ad affrontare quel testo da recitare tutto in musica, rispetto ai Del Cavaliere, Peri, o Caccini, Monteverdi si distingueva per il fatto di essere anzitutto un polifonista con un solido catalogo madrigalistico alle spalle: tutto ciò non dovette rimanere inerte, nel contributo così decisivo dato all’invenzione del nuovo genere.

1.3 Una constatazione immediata: L’Orfeo contiene pagine assimilabili a madrigali. Penso ad alcuni cori di fine d’atto, per i quali Monteverdi adottò una veste polifonica: come già si era fatto in alcuni recuperi cinquecenteschi del teatro tragico. Altre soluzioni, per quanto ne sappiamo,[1] erano state più rare: la pura monodia del solo corifeo, o la dimensione pseudo-monodica di un brano polifonico in cui tutte le voci erano affidate a strumenti tranne il soprano, l’unica effettivamente cantata.

1.4 I due soli esempi musicali superstiti di cori tragici finora individuati con certezza in tutto il Cinquecento (di Cipriano de Rore e di Andrea Gabrieli, relativi rispettivamente alla Selene di Giraldi Cinzio [1548?] e all’Edipo tiranno vicentino del 1585[2]) danno conto l’uno dell’assimilazione in tutto e per tutto al mondo del madrigale polifonico coevo, l’altro di una sua diversa declinazione volta a rispettare le esigenze proprie a testi letterari estesi e con finalità declamatorie e performative.[3]

2. Influenze madrigalistiche nell’Orfeo

2.1 Nell’Orfeo sono i cori che concludono gli atti III e IV a presentare soluzioni affini a quello che potremmo definire il ‘modello Selene.’ In entrambi i casi, il testo letterario di Striggio viene ricondotto più o meno drasticamente a misura madrigalistica (dieci versi invece—rispettivamente—dei trenta e dei quattordici previsti), e trattato come un madrigale polifonico a cinque voci dalla scrittura compatta, ritmicamente omogenea, senza variazioni interne d’organico né ricercatezze cromatiche: le articolazioni risultano nette, la condotta delle voci prevalentemente sillabica, l’impianto modale è lineare e con limitate digressioni (una sola clausula peregrina, verso la conclusione). I risultati sono analoghi a quanto si può vedere in alcuni madrigali raccolti nei libri monteverdiani fin lì apparsi: nel Secondo (ad esempio, Dolcissimi legami; La bocca onde l’asprissime parole), nel Terzo (Sovra tenere erbette e bianchi fiori; Là tra’l sangue e le morti; Ch’io non t’ami, cor mio), nel Quarto (Anima mia, perdona; Anima dolorosa), e soprattutto in molti passi del Quinto. Qui i madrigali citabili sarebbero molti: di fatto, tutti i primi tredici (quelli cioè per i quali il basso continuo è notoriamente «a beneplacito»). I cori-madrigali degli atti III e IV dell’Orfeo presentano quei tratti con nitidezza ancora maggiore: come si richiedeva a pagine dirette a spettatori in ascolto in un teatro, e non a ‘lettori’ a tavolino.

2.2 Non mancano nemmeno casi—anche minuti—di passi paralleli (Esempi 1a, 1b, 1c). Quei cori degli atti III e IV, come sappiamo, danno letteralmente voce agli Spiriti Inferi. Altra sarà quella dei Pastori, sia per tessiture ed organico strumentale, sia morfologicamente:[4] gli Spiriti si esprimono a madrigali, i Pastori ad arie. Al termine degli atti I e II il presupposto letterario (lasse irregolari di versi sciolti) viene rimodellato per generare strutture fondamentalmente strofiche (arie a due o tre voci con ritornello strumentale [atto I] o con refrain a cinque [atto II: «Ahi caso acerbo»], come nel Quinto libro, Ahi! come a un vago sol cortese giro [«Ahi che piaga d’amor»]), mentre la canzonetta finale (atto V) già era conformata come tale. La dialettica tra morfologia chiusa (strofe di versi misurati: canzonette) e aperta (versi sciolti: stile recitativo) viene dunque sfruttata a fini drammatici secondo quel medesimo codice binario che agisce nei madrigali,[5] qui però in funzione caratterizzante.

2.3 Nelle conclusioni degli atti I e II è presente invece anche un tipo di scrittura a due voci quale già nel Quinto libro si poteva vedere in Ahi! come a un vago sol cortese giro e in E così a poco a poco, e come soprattutto si troverà abbondantemente impiegata nei madrigali a due raccolti successivamente nel Concerto del 1619. A questa soluzione (e proprio al caso dell’Orfeo?) pensava Giovan Battista Doni quando scrisse:

Sogliono dunque agli odierni cori alcuna volta far cantare qualche cosetta stando a sedere, o perché i poverelli non si stanchino in passeggiare, o per non esserne il sito capace, o per non saper guidare tale passeggio; e alcuna volta con intrigatissimi giri e rigiri farli fare molte intrecciate, come si fa nelle moresche senza cantare, supplendo a questo alcuni cantori dietro la scena: benché di quello che cantano, sì per quest’abuso di mescolare più arie insieme e di esprimere poco le consonanti, sì per l’impedimento delle tele, il più delle volte non se ne intende parola. Ma quelli che vogliono mostrare più arte, fanno alcuna fiata uscire della schiera e presentarsi avanti due giovanetti che cantino alcuni pochi versi in forma di arietta, e poi si ritirino indietro tra gli altri, dove tutti insieme o quelli soli che sanno cantare ridicono susseguentemente l’istesso come un ritornello, senza dimenticarsi delle fughe, imitazioni e simili vaghezze, e soprattutto di quelle tediosissime ridette molte e molte volte reiterate. Dopo questo si canterà un’altra stanza in simil modo, frapponendovi talvolta una bella passeggiata con le suddette giravolte, finché finito tutto il coro, si ritirano dentro in scena, o pure rimangono in palco, lasciando le orecchie piene di un rimbombo di voci gravi e acute, ma l’intelletto molto poco appagato.[6]

3. Passi madrigalistici a una voce, stile declamato, monodia estemporanea, dissonanze irregolari, e L’Orfeo

3.1 La contiguità tra il Monteverdi dei madrigali e quello dell’Orfeo non è d’altra parte circoscritta ai soli cori polifonici: certe soluzioni visibili in composizioni dei libri dal Terzo al Quinto rimandavano infatti già ad abitudini performative, più che di contrappunto a tavolino, che nella dimensione monodica ebbero ovviamente più agio di esplicarsi. Lo si può verificare però non là dove parrebbe logico, cioè nei passi a voce sola dei madrigali del Quinto libro con basso continuo d’obbligo. Qui infatti la scrittura solistica è altra cosa da quella poi usata da Monteverdi in dimensione teatrale: per quanto eseguita più flessibilmente, era sempre fondamentalmente mensurata, frutto di una concezione sostanzialmente contrappuntistica che al massimo si concedeva fioriture pseudo-improvvisate (Esempi 2a, 2b, 2c).

3.2 Piuttosto, penso ad esempio alle ben note attitudini declamatorie[7] in madrigali dal Terzo al Quinto libro sprezzantemente catalogate da Artusi come consone piuttosto a qualche «giustiniana» o ad una «spifarata mantovana»[8] o alle licenze contrappuntistiche ugualmente censurate da quest’ultimo. Sono aspetti così risaputi che non richiedono ulteriore attenzione: salvo forse ricordare come tutto ciò rimandasse al mondo della performance estemporanea, piuttosto che a quello della composizione scritta e regolata in tutti i suoi dettagli,[9] che nella scrittura monodica poteva dispiegarsi ovviamente ancor meglio. E mette conto segnalare come il trattamento meno rigoroso delle dissonanze non servisse solo—prevedibilmente—la causa delle acmi patetiche, ma si esercitasse anche in passi meno ‘sensibili’ come diffusa prassi di canto artificioso (un atteggiamento poi riscontrabile anche in Sigismondo D’India e in Frescobaldi).[10] Tutto considerato, forse allora non è corretto definire ‘espressivi’ quei mezzi: ‘comunicativi’ saranno piuttosto, espedienti utili per segnalare all’ascoltatore un sintagma o un termine significativo, abbiano o no consistenza patetica (Esempi 3a, 3bI e 3bII, 3c, 3d, 3e).

3.3 Nei madrigali interessati da una disposizione declamatoria delle voci, spesso è possibile rilevare come tale tipo di scrittura appaia subito, in esordio: un attacco sillabico e ‘parlante’ che contrasta col resto, d’impianto invece regolarmente melodico-contrappuntistico. L’esempio più flagrante è ovviamente Sfogava con le stelle del Quarto libro (Esempio 4a). Seppure non a un tale livello, nel Quinto si possono indicare ad esempio Era l’anima mia (Esempio 4b), Ecco, Silvio, colei ch’in odio hai tanto; Ma se con la pietà non è in te spenta; Ecco piegando le genocchie a terra (Esempio 4c); e Ch’io t’ami e t’ami più de la mia vita.

3.4 Sempre nel Quinto libro l’urgenza patetica di una situazione (per inciso, si tenga a mente che stiamo parlando di intonazioni madrigalistiche di un testo teatrale, il guariniano Pastor fido) fa in altri casi invertire il rapporto: come exordium un gesto d’attacco melodico-contrappuntistico di forte impatto, a seguire la declamazione polifonica (Esempi 5a, 5b, 5c, 5d).

4. «Oratione» e «armonia» nello stile recitativo dell’Orfeo

4.1 Un simile oscillare tra «oratione» e «armonia», per dirla alla Monteverdi, è piuttosto comune anche nello stile recitativo agli ‘albori del melodramma,’[11] specie nell’Orfeo: ad incipit declamati su note ribattute e basso continuo stabile, nel rispetto del sistema accentuativo poetico (e dunque sotto il segno dell’«oratione») fanno da contrappeso processi cadenzali in corrispondenza di conclusioni intermedie, o per veri e propri explicit, in cui l’accentuazione è volutamente ‘innaturale,’ e l’interpunzione affidata decisamente ai congegni sintattico-musicali (propri piuttosto del campo dell’«armonia»: si veda l’Esempio 6a). Per particolari esigenze drammatiche, anche nell’Orfeo a volte la successione s’inverte, e il declamato fa seguito ad attacchi più incisivi e brucianti (Esempi 6b e 3c):[12]

4.2 Come si sa, dello scarto dalla norma il madrigale aveva fatto uno dei suoi punti di forza espressiva: anzi, proprio il Quinto libro monteverdiano da questo punto di vista risulta esemplare, come la querelle con Artusi ben dimostra. A questa logica—rapporto significativo fra regola ed eccezione—non sfugge nemmeno L’Orfeo: salvo che la norma recitativa, per ovvie ragioni cronologiche, andrà cercata non tanto in predecessori o in altre opere coeve, ma al suo interno.

4.3 Ad esempio, nell’Orfeo le battute dei singoli attori tendono a farsi percepire come altrettanti segmenti conchiusi. Sono quanto mai infrequenti i collegamenti tra un intervento e l’altro dei personaggi in azione. Di solito ciascuno intona il suo—più o meno esteso—sigillandolo sistematicamente con una cadenza perfetta: di fatto, finendo per restituirci l’idea non di un testo continuo, ma di una collana di pagine poste l’una accanto all’altra. Ad esempio, nell’atto I:[13]

Pastore In questo lieto … nostri concenti. ||
Coro
Ninfa Muse … nostr’armonia s’accorde. ||
Coro
Pastore Ma tu … che detti Amore. ||
Orfeo Rosa del ciel … mi fa contento. ||
Euridice Io non dirò … e quanto t’ami. |
Coro
Pastore Ma s’il nostro gioir … il nostro ben conservi. ||

4.4 In tutto l’Orfeo, rispetto a una scansione di questo tipo le eccezioni si verificano solo in un paio di luoghi. Le cadenze finali risultano infatti assenti o deboli—favorendo così la continuità del flusso drammatico—nell’atto II al momento dell’arrivo della Messaggera (vv. 202–218[14]) e nel IV alla perdita definitiva di Euridice (vv. 529–548). Nel primo caso, il rapporto cromatico dei piani armonici paralleli di Messaggera vs Pastore, e Messaggera vs Orfeo, rende comunque notevolmente accidentata la giuntura (Esempi 7a, 7b).

4.5 Ugualmente due soltanto, e significative, sono le deroghe alla prassi generalizzata di un’intonazione recitativa dei versi sciolti in cui il testo verbale scorre senza ripetizioni. Le incontriamo la prima volta quando Orfeo, ammutolito dopo il racconto della Messaggera, riapre bocca per manifestare la sua intenzione di scendere agli Inferi (atto II, vv. 247–250 [«Tu se’ morta, se’ morta mia vita…» «Tu se’ da me partita, se’ da me partita per mai più, per mai più non tornare» «No, no che se i versi…»), e poi nell’appassionata invocazione di Orfeo agli dei inferi (atto III, v. 399 «Rendetemi’l mio ben, rendetemi’l mio ben, rendetemi’l mio ben, tartarei numi»). Ancora una volta, sono entrambi momenti di elevata tensione patetica, e di conseguente maggior densità stilistica, qualificati da tocchi degni di madrigali a voce sola (alla maniera di quelli delle Nuove musiche cacciniane). Il primo dei passi citati (cfr. in parte l’Esempio 3c) è contraddistinto perdipiù da «supposizioni» (come Zacconi definisce l’appoggiatura[15]), anafora-climax («Tu se’…» vs «ed io…»), icone sonore (la caduta di «abissi»), dissonanze motivate («compagnia di morte») o solo artificiose («intenerito…il re»).

5. Il ruolo delle cadenze

5.1 Anche l’inusuale infittirsi delle cadenze all’interno di ciascun intervento di un personaggio non sembra senza significato. Quello di Euridice nell’atto I, a seguito di «Rosa del ciel» di Orfeo, è ad esempio scandito da clausulae in misura di gran lunga superiore alla norma:

Io non dirò qual sia
nel tuo gioire, Orfeo, la gioia mia, ||
che non ho meco il core ||
ma teco stassi in compagnia d’Amore; ||
chiedilo dunque a lui, s’intender brami ||
quanto lieta i’ gioisca e quanto t’ami. |

5.2 Lo stesso accade a Proserpina che si rivolge riconoscente all’amato Plutone, nell’atto IV (vv. 483–489):

Quali grazie ti rendo,
or che sì nobil dono
concedi a’ preghi miei, signor cortese? ||
Sia benedetto il dì che pria ti piacqui, |
benedetta la preda e’l dolce inganno, |
poiché per mia ventura
feci acquisto di te perdendo il sole. ||

5.3 Plutone definirà «soavi» quelle «parole» amorose cui il frequente cadenzare conferisce un respiro breve, quasi un effetto di rima sovrapposto alle reali desinenze verbali (o a loro rinforzo, come nel caso di quelle di Euridice). Minor soavità ‘musicale’ avranno l’argomentare di Proserpina patrocinatrice della causa di Orfeo (atto IV, vv. 442–459: quattro sole cadenze per diciotto versi), o le lagnanze di Euridice per il fatale comportamento di Orfeo (atto IV, vv. 533–538: due cadenze per sei versi).

6. Il rapporto fra voce e basso continuo

6.1 Nel citato arrivo della Messaggera (Esempio 7a) si noti anche la diversità di rapporto tra voce e basso continuo: un fare decisamente contrappuntistico, laddove di solito—come si è detto—l’attacco di ciascun personaggio è in genere ‘liberamente’ declamatorio, su basso stabile. Il tocco viene percepito anche qui come una deroga dall’abitudine prevalente, e assume subito rilievo drammatico. Ma anche il Pastore che la presenta agli altri («Questa è Silvia gentile…») procede col basso a nota contro nota. Il personaggio in questione—l’unico Pastore-contralto: gli altri sono tutti tenori—era caratterizzato allo stesso modo anche nel suo intervento dell’atto I («Ma tu, gentil cantor…»), differenziandosi così dai colleghi (Esempio 8).

7. Monteverdi, l’«imitatione», e l’io parlante nei madrigali e in teatro

7.1 Insomma, stavolta il diverso tipo di scrittura contribuiva a rendere più individualizzato un personaggio, per quanto di contorno. Le tecniche diverse, che nel madrigale servivano per differenziare gli episodi, nella scrittura drammatica tornavano dunque utili a Monteverdi per caratterizzare personaggi e situazioni: per realizzare, insomma, ciò che il compositore stesso definisce «imitatione».

7.2 È ben noto l’accenno autobiografico che, nell’autunno 1633, Monteverdi farà ad uso verosimilmente di Giovan Battista Doni, ripensando ai difficili momenti passati nel lontano 1608 all’epoca delle feste mantovane:[16]

ho provato in pratica che quando fui per scrivere il Pianto del’Arianna, non trovando libro che mi aprisse la via naturale alla immitazione, né meno che mi illuminasse che dovessi essere immitatore, altri che Platone (per via di un suo lume rinchiuso così che appena potevo scorgere di lontano, con la mia debil vista, quel poco che mi mostrava), ho provato, dicco, la gran fatica che mi bisognò fare in far quel poco ch’io feci d’immitazione, e perciò spero sii per non dispiacere.

7.3 Già Iacopo Peri, nella prefazione a Le musiche … sopra L’Euridice (Firenze, Giorgio Marescotti 1600), aveva segnalato proprio il concetto di «imitazione» come la nuova stella Polare indicata dalla bussola del monodista teatrale: «tralasciata qualunque altra maniera di canto udita fin qui, mi diedi tutto a ricercare l’imitazione che si debbe a questi poemi» drammatici.

7.4 Il «lume» cui Monteverdi allude nel passo della lettera citata doveva essere quello «rinchiuso» in passi del III libro del De Republica che precedono di poco la citazione (x 398d: «Melodiam ex tribus constare, oratione, harmonia, Rithmo»)[17] richiamata da Giulio Cesare Monteverdi nella celebre Dichiaratione (della lettera stampata nel Quinto libro de suoi madregali acclusa agli Scherzi musicali del fratello, da lui curati, 1607), e che avrebbe dovuto conformare anche il trattato ideato da Claudio. Platone parla dell’imitazione come passaggio dalla narrazione al discorso diretto (vi 393d), e come essenza costitutiva di tragedia e commedia (vii 394c). Il concetto d’imitazione in lui è quindi equivalente a ciò che noi diremmo discorso diretto, espressione in prima persona,[18] immedesimazione, abilità attoriale d’indossare maschere foniche diverse dalla propria (non si dimentichi che Platone sta parlando dell’oratore e delle tecniche di dizione ad alta voce e in pubblico).

7.5 Dunque, proponendosi di essere «immitatore» è verosimile che Monteverdi intendesse appunto la capacità di far sembrare che i personaggi ‘parlassero’ musicalmente sua sponte, come se alle loro spalle non ci fosse un compositore-demiurgo a dar loro voce. Non si trattava solo di mettere a punto una nuova tecnica (la monodia accompagnata), ma di piegarla a stili diversi, a uno spettro di soluzioni capaci di caratterizzare via via differenti funzioni, situazioni, e perfino personaggi. Nei madrigali polifonici i compositori restituivano proprie ‘letture’ di testi poetici riconfigurati attraverso l’impalcatura contrappuntistica e la strategia delle soluzioni prescelte, avendo di mira finalità espressive: nella nuova dimensione teatrale, l’autore doveva celarsi dietro le varie personae della fabula, ponendosi come obiettivi un loro incarnazione sonora e la capacità di comunicare. Le valenze espressive esaltate dal madrigalista ci parlano delle sue doti tecnico-artistiche e immaginative, le abilità del monodista teatrale sono di natura istrionica. Il lamento d’Arianna che apparirà a cinque voci nel Sesto libro può essere dichiarato senza problemi opera di Monteverdi; quello dello spettacolo del 1608 dobbiamo fingere nasca da Arianna stessa, non che sia Monteverdi a metterglielo in bocca.[19] Assumendone in pieno le istanze espressive, il compositore ovviamente coglieva l’istantaneità e la dinamica psicologica del personaggio e delle situazioni. Ma in base al concetto platonico d’«immitazione», puntava anche a delineare ‘maschere’ sonore in sé, specifiche e individuabili: per rappresentare, più che per esprimere. In un caso e nell’altro, avere alle spalle un training da madrigalista, serviva.